EL
ALAMEIN: 23 ottobre 1942, una Leica in guerra
PierPaolo Ghisetti
“La guerra è la cosa più stupida inventata dall’uomo”
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Leica IIIcK
Inizio produzione: 1940
Innesto ottiche: passo a vite 39x1
Peso: 400g
Tempi d’otturazione: da 1sec a 1/1000 di secondo
Colorazione: grigia Feldgrau
Versione speciale con otturatore montato su cuscinetti a sfere: identificata dalla K sul tettuccio dopo il numero di matricola, e dalla K bianca stampata sulla tendina (talvolta mancante).
Carl Zeiss Jena Sonnar 5cm f/1,5 passo a vite 39x1
Schema ottico: 7 lenti in 3 gruppi
Versione con passo a vite dell’ottica standard con baionetta Contax;
Peso: 190g, contro i 210g della versione a baionetta
Ghiera di messa a fuoco e scala delle profondità di campo, entrambe mancanti nella versione per ContaxDiaframmi da f/1,5 a f/22, con ghiera dotata d’alette.
Obiettivo dotato di trattamento antiriflesso a tre strati, brevetto Zeiss, identificato dalla T rossa, T per Trasparenz.
Si ringrazia calorosamente Dante Tassi che ha permesso la riproduzione di questo articolo apparso nel numero di Aprile 2006 di Scatti nel Tempo.
http://www.scattineltempo.it/
PierPaolo Ghisetti
Le ore che precedono l’alba nel deserto sono sempre le più fredde e
comunque quel deserto non era poi così ‘deserto’.
Migliaia di uomini con centinaia di carri armati, cannoni, autoblindo e camion aspettavano solo l’alba per ammazzarsi a vicenda: quel mattino, nell’immensa e desolata piana di El Alamein, molti sarebbero morti senza neanche sapere bene dove si trovavano.
Il capitano Giuseppe Sala, del Regio Esercito Italiano, infagottato in un vecchio cappotto, era rintanato in una buca insieme ai pochi soldati del suo battaglione che ancora erano in grado di combattere. Si nascondevano dietro un mucchio di sacchetti di sabbia, con la mitragliatrice Breda e tre mortai da 81mm come uniche armi pesanti rimaste in dotazione al battaglione. Tutti gli uomini sapevano che dall’altra parte gli inglesi guidavano i potenti carri Grant di fabbricazione americana, e che dagli alleati tedeschi c’era da aspettarsi poca collaborazione.
I panzer III e IV, che costituivano il nerbo delle truppe corazzate dell’AfrikaKorps, erano stati impegnati per giorni nel tentativo di sfondamento delle linee alleate, ma ormai ne rimanevano ben pochi e quei pochi con scarsissime riserve di carburante.
Ormai albeggiava. Sala estrasse dall’astuccio il binocolo e vide che in lontananza qualcosa cominciava a muoversi: dopo l’intenso bombardamento notturno, che aveva illuminato a giorno il deserto, era venuto il momento dell’attacco frontale.
‘Pronti’ mormorò sottovoce al mitragliere, mentre questi, per tutta risposta, caricava l’arma con un colpo secco. Camminando a testa bassa nella trincea, il capitano dava dei leggeri buffetti ai soldati ancora addormentati, ma la maggior parte di questi era già sveglia e all’erta. Sala non era certo un tipo emotivo : era stato volontario negli Arditi nella Prima Guerra Mondiale e ferito ad un ginocchio sul Piave, nella battaglia decisiva che aveva causato il crollo definitivo dell’Impero Asburgico; poi aveva partecipato alla guerra in Etiopia, agli ordini del Maresciallo Graziani nel 1935. Quelli come lui, ai tempi della battaglia del Piave, erano chiamati ‘fegatacci’, gente che non aveva paura di nulla, tantomeno delle truppe d’assalto tedesche. Ora però tedeschi ed italiani erano alleati, e questa situazione provocava a Sala un certo disagio.
Era stato rispedito in Africa nel 1941, e da allora era tornato a casa solo una volta, per una licenza di due settimane. L’Esercito era la sua casa e il combattimento faceva parte della sua vita.
Mentre controllava la trincea con uno sguardo circolare, dalla tasca estrasse una macchina fotografica. Era una Leica IIIcK grigia con obiettivo Carl Zeiss Jena Sonnar da 5cm f/1,5 che aveva comprato da un soldato tedesco, nei vittoriosi giorni della presa di Tobruk. I tedeschi, ebbri di gioia per la grande vittoria, si erano impadroniti di enormi quantità di materiale inglese lasciato nella piazzaforte. Evidentemente il Feldwebel tedesco era ansioso di realizzare del denaro in contanti con la sua macchina fotografica, probabilmente per comprare altra merce da rivendere al mercato nero. Il Feldwebel era molto contento di essere stato trasferito dal freddo fronte russo al caldo dell’Africa, proprio nei giorni della vittoria: aveva mostrato con orgoglio la Leica grigia con incisa la prestigiosa K e l’ancor più incredibile Sonnar con passo a vite. La trattativa era stata facilitata dal fatto che il tedesco era in realtà un austriaco di Innsbruck di nome Amadori, di chiara origine italiana, anche se il suo italiano era piuttosto stentato. Aveva spiegato al ‘camerata’ Sala che la K incisa sul corpo macchina e stampigliata sulla tendina significava ‘Kalterfest’ o anche ‘Kugellager’, ovvero che l’otturatore della macchina era stato montato su cuscinetti a sfera, per funzionare meglio nelle gelide steppe russe, ma poteva andare benissimo anche nel clima della Tripolitania. Ciò che aveva definitivamente convinto Sala era l’obiettivo , non solo per la sua incredibile luminosità, ma soprattutto per la caratteristica “T” rossa che indicava uno speciale trattamento antiriflesso garanzia di una nitidezza eccezionale nelle immagini, caratteristica unica degli obiettivi Zeiss. Il prezzo richiesto parve a Sala molto ragionevole, considerando anche il fatto che probabilmente Amadori non era il proprietario’ufficiale’ della macchina, ma quasi certamente ne era venuto in possesso per vie traverse.
Così Sala aveva acquistato la preziosa Leica, che l’aveva sempre fedelmente seguito, senza mai incepparsi, nonostante la polvere onnipresente e le inesorabili tempeste di sabbia, nella travolgente avanzata che aveva portato le truppe dell’Asse ai confini dell’Egitto, a soli cento chilometri da Alessandria.
L’ultima volta che l’aveva usata era stato appena due giorni prima, per fotografare la tomba di due soldati australiani che gli italiani avevano seppellito proprio dietro le loro linee. Sala aveva ripreso le due croci, sormontate dai cappelli a larghe falde tipici degli australiani, con dietro le dune del deserto. Aveva scelto il diaframma f/4, mentre le lunghe ombre delle croci svanivano velocemente col sorgere del sole.
La jeep australiana, con le insegne del Long Range Desert Group, si era spinta imprudentemente, nell’incerta luce che precede l’alba nel deserto, proprio sotto le linee italiane: senza farsi notare Sala, con due uomini, era scivolato fuori dalla trincea e, spostandosi diagonalmente, aveva aspettato che il mezzo nemico fosse a tiro. Una lunga raffica di mitragliatrice aveva posto fine all’avventura dei due australiani, ma Sala sapeva bene perché i due uomini si erano sacrificati in quella rischiosa missione. Il loro compito era di individuare le linee italiane con esattezza e poi riferire per dirigere il cannoneggiamento: avevano rischiato consapevolmente la vita per un motivo preciso. Mentre i suoi uomini seppellivano i due, Sala non provava nessun odio verso i nemici: quel giorno era andata bene agli italiani. La terribile realtà della guerra rendeva tutti, amici e nemici, consapevoli che la propria vita era affidata ogni giorno al caso e che nulla era scontato. Per questa azione Sala era stato proposto per la medaglia d’argento al valor militare dal proprio comandante, ma tutti sapevano che prima di una battaglia le decorazioni erano concesse per motivare i soldati.
Ormai i giorni della speranza erano tramontati per sempre: il capitano Sala era troppo esperto per farsi illusioni. Aveva visto sfilare qualche giorno prima i carri armati M13 della Divisione Corazzata Ariete: in confronto ai Matilda britannici e ai Grant americani, erano delle semplici ‘scatole di sardine’, per non parlare poi della superiorità dell’artiglieria e dell’aviazione alleate. Due contro uno era una proporzione ancora accettabile ma qui, in questo maledetto deserto, lo svantaggio era di cinque a uno, se non di più. Ma Sala era un soldato da quando aveva diciotto anni, volontario per salvare la Patria minacciata da austriaci e tedeschi. Non aveva mai disobbedito ad un ordine e ora, sentendo l’orribile rumore dei cingoli dei carri armati nemici, decise che era ormai troppo tardi per prendere iniziative azzardate.
Il capitano si tolse il cappotto e la bustina color sabbia che portava in testa: cominciava già a fare caldo e fra poco ne avrebbe fatto ancora di più.
Puntò la Leica verso i suoi soldati, regolando il diaframma del lo Zeiss a f/2,8; certo i tedeschi in fatto di fotografia erano imbattibili e la fotocamera portentosa: chissà se sarebbe riuscito a riportarla in Italia. Scattò un paio di fotografie: il mitragliere Esposito era un napoletano calmo e fatalista, mentre l’uomo che reggeva il nastro delle pallottole della mitragliera era pallido, sudato fradicio, con le pupille dilatate. Girò lentamente il bottone di riavvolgimento della Leica, controllò che il Sonnar fosse posizionato sull’infinito, mise la ghiera dei diaframmi a f/8, e scattò verso il deserto, là dove s’ intravedevano le sagome dei carri. Dietro a questi già si notavano gli uomini della fanteria inglese, inconfondibili, col loro caratteristico elmetto a padella e i lunghi fucili Enfield.Sala indossò il pesante elmetto, chiuse la fibbia e, girandosi verso gli uomini ai mortai, fece un cenno: le bombe iniziarono a partire, mentre anche Esposito con la Breda iniziò a fare fuoco. Tutto il fronte italiano incominciò a sparare mentre i carri inglesi si avvicinavano. Improvvisamente un Grant esplose, prendendo fuoco: fu come un segnale. Tutti i carri inglesi cominciarono a tirare simultaneamente, mentre l’aria si faceva torrida ed irrespirabile.
Sala si avvicinò ad Esposito e, poiché il frastuono rendeva inutile qualunque comunicazione a voce, allungando il braccio gli indicò un gruppo di uomini che cercavano di aggirarli sul fianco. Esposito, con una tipica imprecazione partenopea, girò la mitragliera, e con brevi raffiche rabbiose stese il gruppetto di nemici. L’interruzione aveva fatto perdere a Sala la visione della battaglia: ritornò al centro della trincea e vide che ora diversi carri erano stati colpiti. Un fumo acre e denso si levava da diversi punti della pianura, segno che i semoventi da 75mm dell’Ariete, ben interrati a filo di terreno, avevano fatto un buon lavoro di sbarramento. Tuttavia Sala si avvide con disperazione che dietro la prima ondata di Grant si avvicinava una seconda ondata di carri leggeri Stuart, veloci e maneggevoli.
Ormai si vedevano chiaramente anche ad occhio nudo le sagome degli uomini della fanteria inglese: mentre correva chinato lungo la trincea, Sala sentì che la Leica nella tasca gli sbatteva contro il fianco: avrebbe voluto scattare delle immagini di quei momenti, ma non ne aveva né il tempo né la disposizione d’animo.
I carri nemici si trovavano ormai a pochi metri di distanza: era tutto inutile, erano semplicemente troppi. Improvvisamente un Grant si arrestò rombando sul terrapieno fatto dai sacchetti di sabbia che proteggeva la trincea italiana. Per qualche istante la pancia del mostro d’acciaio rimase totalmente scoperta: come al rallentatore Sala vide il sergente Capasso piazzare una mina magnetica alla base del carro e poi scivolare via. L’esplosione terrificante si mescolò alle altre esplosioni, ma ora il carro era in fiamme e gli sfortunati carristi inglesi tentarono di uscire del portello superiore, urlando come forsennati. I soldati di Sala li abbatterono a fucilate, mentre i primi fanti inglesi già si affacciavano alla trincea.
Era il caos. Esposito aveva smesso di sparare: Sala corse verso la postazione della mitragliera, ma ora c’era solo un buco con dei corpi bruciacchiati. Mentre contemplava la scena, sentì un dolore al fianco e si girò di colpo: un fante inglese aveva cercato di colpirlo con la baionetta, ma questa era stata provvidenzialmente deviata da qualcosa che teneva in tasca: la Leica.
Approfittando della sorpresa del soldato inglese, che era scivolato in avanti, Sala ebbe ancora la forza di estrarre la Beretta d’ordinanza e di sparare: caddero entrambi dentro la trincea, mentre sopra di loro decine di carri e centinaia di uomini dilagavano oltre le postazioni italiane.
Alcune ore dopo Sala fu raccolto da un reparto inglese: la battaglia si era spostata di alcuni chilometri a ovest e ora gli italiani sopravissuti venivano rastrellati.
Gli inglesi notarono che Sala era un ufficiale e, dopo aver controllato che fosse disarmato, lo misero insieme con altri ufficiali italiani prigionieri; tuttavia nella confusione riuscì a nascondere la piccola Leica nella tasca interna dei pantaloni.
Il capitano Giuseppe Sala, dopo essere stato trasferito ad Ismailia, all’estremità del canale di Suez, fu imbarcato su un vapore civile con migliaia d’altri soldati italiani prigionieri: dopo quasi un mese di viaggio per nave arrivò finalmente a Bombay, in India. Dai lì, dopo tre giorni di treno nell’immensa pianura gangetica, i prigionieri arrivarono a Bangalore; da qui, in altri due giorni, giunsero finalmente a Dharamsala e al vicino campo di prigionia di Jol, situato nella giungla, all’altezza di duemila metri, alle pendici dell’Himalaya. Nel campo, dove erano rinchiusi circa 10.000 ufficiali italiani, infuriava la malaria e la dissenteria: gli inglesi, a corto di cibo e di medicinali, sottoposti agli attacchi dei giapponesi in Birmania, non avevano né la voglia né l’intenzione di sprecare risorse per i prigionieri italiani.
Sala trascorse in India momenti drammatici, forse più drammatici di quelli trascorsi in Nord Africa. Molti compagni morirono di debolezza di malattia: molti sopravvissuti alla battaglia di El Alamein finirono miseramente i loro giorni per banali infezioni non curate adeguatamente. Il terribile clima indiano, un caldo torrido alternato a snervanti piogge monsoniche, debilitava i già logorati prigionieri, fiaccati da anni di guerra. Ma la preziosa Leica venne ancora in aiuto al capitano Giuseppe Sala: costui scambiò con le guardie inglesi l’ambita macchina tedesca e l’ancor più ricercato obiettivo Zeiss con diverse scatole di chinino e grazie a questi medicinali riuscì non solo a salvare se stesso dalla malaria, ma anche diversi compagni ammalati.Sala tornò in Italia solo a metà del 1946, dopo quasi un anno dalla fine della guerra: gli ufficiali scelsero di essere gli ultimi ad essere imbarcati e il viaggio di rientro durò ben tre mesi. La moglie e la figlia, prive di notizie da lungo tempo, lo credevano disperso o addirittura morto .
Il capitano Giuseppe Sala, mio nonno, divenuto poi colonnello, mi regalò per il mio dodicesimo compleanno la bustina gialla con le stellette da capitano portata ad El Alamein, e mi raccontò tutta la storia: da lì nacque la mia ammirazione per la Leica e per le ottiche Zeiss.
Un’ammirazione dovuta più al fatto che avevano salvato la vita al mio adorato nonno, il padre di mia madre, che alle loro qualità tecniche, di cui non ero certo cosciente. La Leica IIIcK è dall’ora la mia Leica preferita, la prima che acquistai appena potei permettermelo, quella da cui non mi separerò mai. Trovare l’obiettivo Zeiss da 5cm con passo a vite 39x1 fu molto più difficile, ma alla fine riuscii a completare la combinazione.Ogni volta che tocco i comandi della piccola Leica grigia mi sembra di sentire ancora il freddo intenso di quell’alba nel deserto. Quando poso gli occhi nel piccolo mirino, mi sembra di vedere non i tetti che circondano la mia casa, ma i carri inglesi che si avvicinano minacciosamente. Svitando il grosso obiettivo Zeiss, avverto la terribile solitudine di chi si trova tra migliaia di altri internati, nel campo di prigionia di Jol. Quando osservo la ‘K’ bianca stampigliata sulla tendina della Leica mi sfilano nella mente le foto della guerra nel deserto che mio nonno mi faceva vedere più di quarant’anni fa, e di cui io allora capivo ben poco.
Ripongo la IIIcK e il Sonnar nella mia bacheca: mi sembra quasi udire ancora la voce di mio nonno, il coraggioso capitano Giuseppe Sala.
Migliaia di uomini con centinaia di carri armati, cannoni, autoblindo e camion aspettavano solo l’alba per ammazzarsi a vicenda: quel mattino, nell’immensa e desolata piana di El Alamein, molti sarebbero morti senza neanche sapere bene dove si trovavano.
Il capitano Giuseppe Sala, del Regio Esercito Italiano, infagottato in un vecchio cappotto, era rintanato in una buca insieme ai pochi soldati del suo battaglione che ancora erano in grado di combattere. Si nascondevano dietro un mucchio di sacchetti di sabbia, con la mitragliatrice Breda e tre mortai da 81mm come uniche armi pesanti rimaste in dotazione al battaglione. Tutti gli uomini sapevano che dall’altra parte gli inglesi guidavano i potenti carri Grant di fabbricazione americana, e che dagli alleati tedeschi c’era da aspettarsi poca collaborazione.
I panzer III e IV, che costituivano il nerbo delle truppe corazzate dell’AfrikaKorps, erano stati impegnati per giorni nel tentativo di sfondamento delle linee alleate, ma ormai ne rimanevano ben pochi e quei pochi con scarsissime riserve di carburante.
Ormai albeggiava. Sala estrasse dall’astuccio il binocolo e vide che in lontananza qualcosa cominciava a muoversi: dopo l’intenso bombardamento notturno, che aveva illuminato a giorno il deserto, era venuto il momento dell’attacco frontale.
‘Pronti’ mormorò sottovoce al mitragliere, mentre questi, per tutta risposta, caricava l’arma con un colpo secco. Camminando a testa bassa nella trincea, il capitano dava dei leggeri buffetti ai soldati ancora addormentati, ma la maggior parte di questi era già sveglia e all’erta. Sala non era certo un tipo emotivo : era stato volontario negli Arditi nella Prima Guerra Mondiale e ferito ad un ginocchio sul Piave, nella battaglia decisiva che aveva causato il crollo definitivo dell’Impero Asburgico; poi aveva partecipato alla guerra in Etiopia, agli ordini del Maresciallo Graziani nel 1935. Quelli come lui, ai tempi della battaglia del Piave, erano chiamati ‘fegatacci’, gente che non aveva paura di nulla, tantomeno delle truppe d’assalto tedesche. Ora però tedeschi ed italiani erano alleati, e questa situazione provocava a Sala un certo disagio.
Era stato rispedito in Africa nel 1941, e da allora era tornato a casa solo una volta, per una licenza di due settimane. L’Esercito era la sua casa e il combattimento faceva parte della sua vita.
Mentre controllava la trincea con uno sguardo circolare, dalla tasca estrasse una macchina fotografica. Era una Leica IIIcK grigia con obiettivo Carl Zeiss Jena Sonnar da 5cm f/1,5 che aveva comprato da un soldato tedesco, nei vittoriosi giorni della presa di Tobruk. I tedeschi, ebbri di gioia per la grande vittoria, si erano impadroniti di enormi quantità di materiale inglese lasciato nella piazzaforte. Evidentemente il Feldwebel tedesco era ansioso di realizzare del denaro in contanti con la sua macchina fotografica, probabilmente per comprare altra merce da rivendere al mercato nero. Il Feldwebel era molto contento di essere stato trasferito dal freddo fronte russo al caldo dell’Africa, proprio nei giorni della vittoria: aveva mostrato con orgoglio la Leica grigia con incisa la prestigiosa K e l’ancor più incredibile Sonnar con passo a vite. La trattativa era stata facilitata dal fatto che il tedesco era in realtà un austriaco di Innsbruck di nome Amadori, di chiara origine italiana, anche se il suo italiano era piuttosto stentato. Aveva spiegato al ‘camerata’ Sala che la K incisa sul corpo macchina e stampigliata sulla tendina significava ‘Kalterfest’ o anche ‘Kugellager’, ovvero che l’otturatore della macchina era stato montato su cuscinetti a sfera, per funzionare meglio nelle gelide steppe russe, ma poteva andare benissimo anche nel clima della Tripolitania. Ciò che aveva definitivamente convinto Sala era l’obiettivo , non solo per la sua incredibile luminosità, ma soprattutto per la caratteristica “T” rossa che indicava uno speciale trattamento antiriflesso garanzia di una nitidezza eccezionale nelle immagini, caratteristica unica degli obiettivi Zeiss. Il prezzo richiesto parve a Sala molto ragionevole, considerando anche il fatto che probabilmente Amadori non era il proprietario’ufficiale’ della macchina, ma quasi certamente ne era venuto in possesso per vie traverse.
Così Sala aveva acquistato la preziosa Leica, che l’aveva sempre fedelmente seguito, senza mai incepparsi, nonostante la polvere onnipresente e le inesorabili tempeste di sabbia, nella travolgente avanzata che aveva portato le truppe dell’Asse ai confini dell’Egitto, a soli cento chilometri da Alessandria.
L’ultima volta che l’aveva usata era stato appena due giorni prima, per fotografare la tomba di due soldati australiani che gli italiani avevano seppellito proprio dietro le loro linee. Sala aveva ripreso le due croci, sormontate dai cappelli a larghe falde tipici degli australiani, con dietro le dune del deserto. Aveva scelto il diaframma f/4, mentre le lunghe ombre delle croci svanivano velocemente col sorgere del sole.
La jeep australiana, con le insegne del Long Range Desert Group, si era spinta imprudentemente, nell’incerta luce che precede l’alba nel deserto, proprio sotto le linee italiane: senza farsi notare Sala, con due uomini, era scivolato fuori dalla trincea e, spostandosi diagonalmente, aveva aspettato che il mezzo nemico fosse a tiro. Una lunga raffica di mitragliatrice aveva posto fine all’avventura dei due australiani, ma Sala sapeva bene perché i due uomini si erano sacrificati in quella rischiosa missione. Il loro compito era di individuare le linee italiane con esattezza e poi riferire per dirigere il cannoneggiamento: avevano rischiato consapevolmente la vita per un motivo preciso. Mentre i suoi uomini seppellivano i due, Sala non provava nessun odio verso i nemici: quel giorno era andata bene agli italiani. La terribile realtà della guerra rendeva tutti, amici e nemici, consapevoli che la propria vita era affidata ogni giorno al caso e che nulla era scontato. Per questa azione Sala era stato proposto per la medaglia d’argento al valor militare dal proprio comandante, ma tutti sapevano che prima di una battaglia le decorazioni erano concesse per motivare i soldati.
Ormai i giorni della speranza erano tramontati per sempre: il capitano Sala era troppo esperto per farsi illusioni. Aveva visto sfilare qualche giorno prima i carri armati M13 della Divisione Corazzata Ariete: in confronto ai Matilda britannici e ai Grant americani, erano delle semplici ‘scatole di sardine’, per non parlare poi della superiorità dell’artiglieria e dell’aviazione alleate. Due contro uno era una proporzione ancora accettabile ma qui, in questo maledetto deserto, lo svantaggio era di cinque a uno, se non di più. Ma Sala era un soldato da quando aveva diciotto anni, volontario per salvare la Patria minacciata da austriaci e tedeschi. Non aveva mai disobbedito ad un ordine e ora, sentendo l’orribile rumore dei cingoli dei carri armati nemici, decise che era ormai troppo tardi per prendere iniziative azzardate.
Il capitano si tolse il cappotto e la bustina color sabbia che portava in testa: cominciava già a fare caldo e fra poco ne avrebbe fatto ancora di più.
Puntò la Leica verso i suoi soldati, regolando il diaframma del lo Zeiss a f/2,8; certo i tedeschi in fatto di fotografia erano imbattibili e la fotocamera portentosa: chissà se sarebbe riuscito a riportarla in Italia. Scattò un paio di fotografie: il mitragliere Esposito era un napoletano calmo e fatalista, mentre l’uomo che reggeva il nastro delle pallottole della mitragliera era pallido, sudato fradicio, con le pupille dilatate. Girò lentamente il bottone di riavvolgimento della Leica, controllò che il Sonnar fosse posizionato sull’infinito, mise la ghiera dei diaframmi a f/8, e scattò verso il deserto, là dove s’ intravedevano le sagome dei carri. Dietro a questi già si notavano gli uomini della fanteria inglese, inconfondibili, col loro caratteristico elmetto a padella e i lunghi fucili Enfield.Sala indossò il pesante elmetto, chiuse la fibbia e, girandosi verso gli uomini ai mortai, fece un cenno: le bombe iniziarono a partire, mentre anche Esposito con la Breda iniziò a fare fuoco. Tutto il fronte italiano incominciò a sparare mentre i carri inglesi si avvicinavano. Improvvisamente un Grant esplose, prendendo fuoco: fu come un segnale. Tutti i carri inglesi cominciarono a tirare simultaneamente, mentre l’aria si faceva torrida ed irrespirabile.
Sala si avvicinò ad Esposito e, poiché il frastuono rendeva inutile qualunque comunicazione a voce, allungando il braccio gli indicò un gruppo di uomini che cercavano di aggirarli sul fianco. Esposito, con una tipica imprecazione partenopea, girò la mitragliera, e con brevi raffiche rabbiose stese il gruppetto di nemici. L’interruzione aveva fatto perdere a Sala la visione della battaglia: ritornò al centro della trincea e vide che ora diversi carri erano stati colpiti. Un fumo acre e denso si levava da diversi punti della pianura, segno che i semoventi da 75mm dell’Ariete, ben interrati a filo di terreno, avevano fatto un buon lavoro di sbarramento. Tuttavia Sala si avvide con disperazione che dietro la prima ondata di Grant si avvicinava una seconda ondata di carri leggeri Stuart, veloci e maneggevoli.
Ormai si vedevano chiaramente anche ad occhio nudo le sagome degli uomini della fanteria inglese: mentre correva chinato lungo la trincea, Sala sentì che la Leica nella tasca gli sbatteva contro il fianco: avrebbe voluto scattare delle immagini di quei momenti, ma non ne aveva né il tempo né la disposizione d’animo.
I carri nemici si trovavano ormai a pochi metri di distanza: era tutto inutile, erano semplicemente troppi. Improvvisamente un Grant si arrestò rombando sul terrapieno fatto dai sacchetti di sabbia che proteggeva la trincea italiana. Per qualche istante la pancia del mostro d’acciaio rimase totalmente scoperta: come al rallentatore Sala vide il sergente Capasso piazzare una mina magnetica alla base del carro e poi scivolare via. L’esplosione terrificante si mescolò alle altre esplosioni, ma ora il carro era in fiamme e gli sfortunati carristi inglesi tentarono di uscire del portello superiore, urlando come forsennati. I soldati di Sala li abbatterono a fucilate, mentre i primi fanti inglesi già si affacciavano alla trincea.
Era il caos. Esposito aveva smesso di sparare: Sala corse verso la postazione della mitragliera, ma ora c’era solo un buco con dei corpi bruciacchiati. Mentre contemplava la scena, sentì un dolore al fianco e si girò di colpo: un fante inglese aveva cercato di colpirlo con la baionetta, ma questa era stata provvidenzialmente deviata da qualcosa che teneva in tasca: la Leica.
Approfittando della sorpresa del soldato inglese, che era scivolato in avanti, Sala ebbe ancora la forza di estrarre la Beretta d’ordinanza e di sparare: caddero entrambi dentro la trincea, mentre sopra di loro decine di carri e centinaia di uomini dilagavano oltre le postazioni italiane.
Alcune ore dopo Sala fu raccolto da un reparto inglese: la battaglia si era spostata di alcuni chilometri a ovest e ora gli italiani sopravissuti venivano rastrellati.
Gli inglesi notarono che Sala era un ufficiale e, dopo aver controllato che fosse disarmato, lo misero insieme con altri ufficiali italiani prigionieri; tuttavia nella confusione riuscì a nascondere la piccola Leica nella tasca interna dei pantaloni.
Il capitano Giuseppe Sala, dopo essere stato trasferito ad Ismailia, all’estremità del canale di Suez, fu imbarcato su un vapore civile con migliaia d’altri soldati italiani prigionieri: dopo quasi un mese di viaggio per nave arrivò finalmente a Bombay, in India. Dai lì, dopo tre giorni di treno nell’immensa pianura gangetica, i prigionieri arrivarono a Bangalore; da qui, in altri due giorni, giunsero finalmente a Dharamsala e al vicino campo di prigionia di Jol, situato nella giungla, all’altezza di duemila metri, alle pendici dell’Himalaya. Nel campo, dove erano rinchiusi circa 10.000 ufficiali italiani, infuriava la malaria e la dissenteria: gli inglesi, a corto di cibo e di medicinali, sottoposti agli attacchi dei giapponesi in Birmania, non avevano né la voglia né l’intenzione di sprecare risorse per i prigionieri italiani.
Sala trascorse in India momenti drammatici, forse più drammatici di quelli trascorsi in Nord Africa. Molti compagni morirono di debolezza di malattia: molti sopravvissuti alla battaglia di El Alamein finirono miseramente i loro giorni per banali infezioni non curate adeguatamente. Il terribile clima indiano, un caldo torrido alternato a snervanti piogge monsoniche, debilitava i già logorati prigionieri, fiaccati da anni di guerra. Ma la preziosa Leica venne ancora in aiuto al capitano Giuseppe Sala: costui scambiò con le guardie inglesi l’ambita macchina tedesca e l’ancor più ricercato obiettivo Zeiss con diverse scatole di chinino e grazie a questi medicinali riuscì non solo a salvare se stesso dalla malaria, ma anche diversi compagni ammalati.Sala tornò in Italia solo a metà del 1946, dopo quasi un anno dalla fine della guerra: gli ufficiali scelsero di essere gli ultimi ad essere imbarcati e il viaggio di rientro durò ben tre mesi. La moglie e la figlia, prive di notizie da lungo tempo, lo credevano disperso o addirittura morto .
Il capitano Giuseppe Sala, mio nonno, divenuto poi colonnello, mi regalò per il mio dodicesimo compleanno la bustina gialla con le stellette da capitano portata ad El Alamein, e mi raccontò tutta la storia: da lì nacque la mia ammirazione per la Leica e per le ottiche Zeiss.
Un’ammirazione dovuta più al fatto che avevano salvato la vita al mio adorato nonno, il padre di mia madre, che alle loro qualità tecniche, di cui non ero certo cosciente. La Leica IIIcK è dall’ora la mia Leica preferita, la prima che acquistai appena potei permettermelo, quella da cui non mi separerò mai. Trovare l’obiettivo Zeiss da 5cm con passo a vite 39x1 fu molto più difficile, ma alla fine riuscii a completare la combinazione.Ogni volta che tocco i comandi della piccola Leica grigia mi sembra di sentire ancora il freddo intenso di quell’alba nel deserto. Quando poso gli occhi nel piccolo mirino, mi sembra di vedere non i tetti che circondano la mia casa, ma i carri inglesi che si avvicinano minacciosamente. Svitando il grosso obiettivo Zeiss, avverto la terribile solitudine di chi si trova tra migliaia di altri internati, nel campo di prigionia di Jol. Quando osservo la ‘K’ bianca stampigliata sulla tendina della Leica mi sfilano nella mente le foto della guerra nel deserto che mio nonno mi faceva vedere più di quarant’anni fa, e di cui io allora capivo ben poco.
Ripongo la IIIcK e il Sonnar nella mia bacheca: mi sembra quasi udire ancora la voce di mio nonno, il coraggioso capitano Giuseppe Sala.
“La guerra è la cosa più stupida inventata dall’uomo”
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Leica IIIcK
Inizio produzione: 1940
Innesto ottiche: passo a vite 39x1
Peso: 400g
Tempi d’otturazione: da 1sec a 1/1000 di secondo
Colorazione: grigia Feldgrau
Versione speciale con otturatore montato su cuscinetti a sfere: identificata dalla K sul tettuccio dopo il numero di matricola, e dalla K bianca stampata sulla tendina (talvolta mancante).
Carl Zeiss Jena Sonnar 5cm f/1,5 passo a vite 39x1
Schema ottico: 7 lenti in 3 gruppi
Versione con passo a vite dell’ottica standard con baionetta Contax;
Peso: 190g, contro i 210g della versione a baionetta
Ghiera di messa a fuoco e scala delle profondità di campo, entrambe mancanti nella versione per ContaxDiaframmi da f/1,5 a f/22, con ghiera dotata d’alette.
Obiettivo dotato di trattamento antiriflesso a tre strati, brevetto Zeiss, identificato dalla T rossa, T per Trasparenz.
Si ringrazia calorosamente Dante Tassi che ha permesso la riproduzione di questo articolo apparso nel numero di Aprile 2006 di Scatti nel Tempo.
http://www.scattineltempo.it/